Re: Re:
Scritto da: Mokele 11/02/2006 2.35
Ripeto il mio parere: seguendo il vostro discorso, ogni tipo di competizione a livello mondiale con annesso un enorme lavoro di Marketing dovrebbe essere cancellato dalla faccia della terra...
Appunto.
A riguardo copio per intero l'articolo che ha indicato belzebù
articolo datato, ma concetti sempre validi e ben associabili a queste Olimpiadi...
I falsi valori dello sport ideale
Gli eroi mitizzati dell'illusione olimpica
da LE MONDE diplomatique - Giugno 2004
Il 12 giugno è cominciata una stagione sportiva appassionante: il campionato europeo di calcio, che finirà il 4 luglio; il tour de France dal 3 al 25 luglio; senza dimenticare i giochi olimpici di Atene dal 13 al 29 agosto. Ma la festa è spesso coperta dagli effetti di una commercializzazione sfrenata, che porta a accelerare la corsa al profitto. Le virtù emancipatorie dello sport servono quindi a mascherare la tirannia e la violenza che ad esso sono legate.
Jean-Marie Brohm, Marc Perelman e Patrick Vassort
Alla globalizzazione dello sport, che è iniziata realmente dopo la seconda guerra mondiale con il moltiplicarsi infinito degli eventi agonistici, fa da contraltare una «sportivizzazione» del mondo, intesa come vettore politico-ideologico comune al complesso delle potenze finanziarie che impongono il loro diktat a tutto il pianeta. Da quando il barone Pierre de Coubertin lanciò il movimento irresistibile di propagazione sportiva riportando in auge i giochi olimpici ad Atene nel 1896, il fenomeno sportivo è caratterizzato dalla compresenza di numerosi fattori: uno sviluppo senza precedenti della maggior parte degli sport a livello planetario, la loro omogeneizzazione internazionale grazie alla codificazione di regole unificate, e la graduale scomparsa delle tecniche corporee o dei giochi a carattere prettamente locale.
L'unità di questo complesso ha riconfigurato contemporaneamente il tempo del mondo (calendari sempre più fitti di eventi agonistici, che sono un punto di riferimento accettato da tutti) e lo spazio geopolitico (moltiplicazione dei luoghi della pratica sportiva: nei cortili degli edifici, negli stadi, a casa propria davanti a uno schermo all'aperto), e tutto questo avviene in uno spettacolo trasmesso in televisione su scala mondiale. Sembra addirittura scaturire da questa articolazione senza precedenti del tempo e dello spazio una nuova storia, costituita dalle grandi imprese, i record, le prestazioni, che crea di per se stessa miti e «favolose leggende», con i campioni come dei trionfanti in un oceano sconfinato di immagini. Questa pandemia sportiva - l'ampliarsi della sua sfera d'influenza nell'ambito della vita quotidiana - è, di fatto, riconoscibile nella globalizzazione dello sport in quanto universo spietato di «vincenti».
Lo spazio pubblico, ridotto a uno schermo di sogno televisivo, è saturo di sport, a un punto tale che la politica, ad esempio, viene considerata anch'essa alla stregua di uno sport. Il tifo sportivo ha contaminato le coscienze a una velocità inaudita, facendo di ogni individuo un potenziale sostenitore. Al punto che lo sport d'ora in poi si colloca sullo stesso registro dei bisogni - bere, mangiare o dormire - ed è divenuto lo spazio-tempo pressoché esclusivo di queste folle solitarie inebetite dalla passione dell'inessenziale: un tiro in porta, uno sprint o un servizio vincente. Lo sport costituisce la vita quotidiana, e per numerosi individui non esiste più nulla al di fuori di esso, se non il vuoto abissale del gergo, anch'esso televisivo, della inautenticità.
Se gli stati consentono lo svolgersi effettivo della competizione, l'autentica fascinazione dello spettacolo che si impadronisce delle folle estasiate deriva per l'appunto dalla potenza al tempo stesso banale e ipnotizzante della ritrasmissione generalizzata degli incontri sportivi - da un unico punto del mondo, lo stadio, verso tutti i punti possibili, ogni singola casa - e secondo una modalità di trasmissione che gli è propria: la diretta, il ralenti e la ripetizione da tutti gli angoli possibili, in un ciclo continuo.
Per la sua stessa modalità di manifestazione, lo sport è divenuto uno dei vettori della globalizzazione in atto, vale a dire una spazializzazione planetaria sotto il regime d'un tempo unico reificato, letteralmente coagulato, costituito dalla potenza universale della trasmissione televisiva. Al tempo ancora segnato dalla storicità, un tempo complesso, con una certa fluidità dialettica (1), si è dunque sostituito il tempo dello sport, che scandisce la storia al ritmo delle gare, dei record, delle dirette televisive. Lo sport «reale» non è altro che una frenesia di eventi agonistici, l'organizzazione planetaria della loro rotazione permanente in un calendario universale. Ormai lo sport non è altro che una delle componenti di un tempo ed uno spazio resi autonomi dal capitale e nel capitale. Segna la presa di possesso del tempo e dello spazio a sua immagine e in quanto immagine.
Nuove star della globalizzazione, i campioni hanno preso il posto dei divi del cinema e dello show business. Lo sportivo di alto livello è diventato il modello pubblicitario da seguire, quello con cui devono identificarsi i giovani. Non soltanto gli sponsor costruiscono l'immagine degli atleti come prodotti globalizzati standard, ma la globalizzazione veicola le figure planetarie di atleti uniformati, a immagine e somiglianza delle loro calzature: la loro lingua comune è il gergo anglo-sportivo, la loro maniera di vivere è omogeneizzata - le stesse «bevande energetiche», gli stessi alberghi a 5 stelle, le stesse passioni per le auto di grande cilindrata, gli stessi allenamenti demenziali, gli stessi doping, lo stesso interesse per il conto in banca.
Arruolati in teams, scuderie, squadre controllate da potenti interessi finanziari, questi happy few dedicano il loro tempo a incontrarsi in giro per il mondo, offrendosi come spettacolo al cospetto di un'immensa platea di diseredati e di oppressi, ridotti a essere nient'altro che telespettatori fanatici o macchine sempre pronte per l'applauso, come nei reality shows.
Il culto della prestazione La potenza effettiva dell'ideologia dello sport deriva dalla moltiplicazione infinita delle immagini dell'evento agonistico senza altra mediazione se non commenti ridondanti di una penosa banalità. La globalizzazione permanente in onda sul piccolo scherma trasforma così la passione sportiva in passione dell'immagine, in «iconomania», per riprendere il concetto di Gunther Anders (2). La contaminazione generale delle coscienze proviene così da questo incessante martellamento dello sport televisivo che, tramite l'immagine infinita, imposta dalle tecnologie digitali che inchiodano ogni individuo davanti ai suoi schermi (internet, cellulare, dvd, televisore) celebra non soltanto le nuove icone dello sport, ma distilla la visione sportiva del mondo alle masse.
«L'ideologia - scriveva Engels - è un processo che il sedicente pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza falsa. Le autentiche forze che lo mettono in moto gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe affatto di un processo ideologico.
E perciò egli si immagina delle forze motrici false o apparenti (3)».
E così
l'ideologia sportiva inscena l'azione immaginaria di ipostasi immaginarie (l'idea olimpica, la pace olimpica, il fair play, lo spirito sportivo) misconoscendo, mascherando o rimuovendo le forze motrici reali dello sport: l'accumulo del capitale sportivo, la corsa sfrenata al rendimento, gli effetti deleteri dell'agonismo spinto al limite.
La prima forma di falsa coscienza che distingue questa Disneyland in quanto apparato ideologico è il diniego di qualsiasi carattere ideologico, la scotomizzazione politica di qualsiasi carattere politico dello sport.
In forma ingenua fra i praticanti e o dirigenti sportivi immersi in questo oceano onirico narcisistico e megalomane al tempo stesso, in maniera più perversa in certi ambienti intellettuali, lo sport è presentato come un culto della prestazione, una controsocietà dello sforzo agonistico, un universo incantato e incantatore di pratiche di superamento di sé, che non avrebbero nulla a che spartire con l'opposizione ideologica, gli orientamenti politici, le convinzioni religiose. Lo sport sarebbe fondamentalmente neutro, apolitico, al di fuori della lotta di classe, né di destra né di sinistra e neppure di centro, al di sopra delle dispute di parte e dei conflitti sociali.
L'ideologia della «neutralità assiologica» nega con grande asprezza il ruolo dello sport in quanto attività di abbrutimento, indottrinamento e cloroformizzazione delle masse - nelle metropoli imperialiste così come nel terzo mondo. Si esprime in due forme essenziali, che si potranno riconoscere a colpo sicuro in occasione dei prossimi giochi olimpici, ad Atene.
La prima, veicolata con insistenza da tutte le tendenze di sinistra, consiste nel sostenere che lo sport può ammantarsi di tutti i colori, dal rosso vivo al rosa pallido. Organizzato in maniera «progressista», lo sport potrebbe contribuire così all'emancipazione delle donne, combattere il razzismo e la xenofobia, contribuire all'integrazione nazionale, rilanciare l'ascesa sociale e, per finire, promuovere la «cultura». Esisterebbe così uno sport autentico, uno sport educativo, uno sport purificato, uno sport dal volto umano, insomma una Essenza o Idea platonica dello sport che smentirebbe i deplorevoli eccessi, gli abusi, le deviazioni snaturate dello sport realmente esistente.
La realtà piuttosto sordida dell'affarismo, del doping, delle partite truccate e della corruzione si incarica di richiamare periodicamente all'ordine questi venditori di illusioni. La seconda espressione dell'ideologia della neutralità ideologica, ancora più estesa fra le masse, si ricostituisce periodicamente nelle acclamazioni unanimiste del «consenso sportivo». La gregarizzazione, la massificazione, la mobilitazione totale, se non totalitaria, delle folle che le mitiche gesta degli dei dello stadio fanno «uscire di testa dalla felicità» - lo si è visto ancora di recente, per la vittoria della Tunisia alla Coppa d'Africa di calcio - dimostrerebbero l'universalità dell'«ideale sportivo» o dell'«idea olimpica». È quindi motivo di costernazione vedere tanti intellettuali, solitamente più critici, unirsi alle orde dei fanatici del muscolo, incapaci di portare alla luce le funzioni politiche reazionarie di questa sportivizzazione delle menti, di questo martellamento emotivo fittizio che circonda i «nostri» campioni.
Nelle estasi nazionali - c'è chi ha addirittura parlato di orgasmo - che saturano lo spazio pubblico in caso di vittoria, agli amici dello sport piace riconoscere il manifestarsi di un'unione sacra rigeneratrice. I campioni sarebbero allora l'avanguardia di una società riconciliata con se stessa. E così la vittoria della squadra francese «nero-bianco-beur» alla Coppa del mondo di calcio nel 1998 ha offerto l'occasione per un'ondata di rincretinimento populista dilagante.
Didier Deschamps, capitano dei «bleus» ha affermato senza la minima ironia che «il calcio è un vettore che permette di cancellare le differenze razziali, politiche e sociali (4)». Il commissario tecnico Aimé Jacquet si è lanciato su toni lirici: «La Francia si è riconosciuta in questa squadra multietnica. Che questi giovani, nati in Francia, pieni di ambizioni e di gioia di vivere, abbiano reso felici tante persone, è un fatto molto positivo per il paese. Credo che questo possa dare un buon impulso all'unità nazionale (5)». L'editorialista de L'Humanité tesseva la metafora della «leggenda del secolo»: «Gli idoli blu sono entrati nella splendente eternità del football (6)».
Non deve quindi destare stupore il fatto che Zinedine Zidane sia stato eletto «il francese più amato dai francesi», e che i più intossicati dall'oppio sportivo abbiano addirittura pensato a «Zidane presidente!».
Questa demagogia unanimista, peraltro, non ha resistito troppo a lungo al principio di realtà: né il «calcio delle città», né lo «street-ball», né lo «sport popolare», né lo «sport per tutti» - tutti questi specchietti per allodole del pensiero desiderante - hanno impedito l'aggravarsi della «frattura sociale» e il logoramento continuo del vincolo collettivo nei «quartieri difficili». Ben lungi dal contribuire alla concordia civile, gli incontri sportivi sono sempre più costellati da gravi incidenti e da odiose violenze, che non sono semplici «episodi sporadici» o «fatti di cronaca», bensì la conseguenza del desiderio della vittoria ad ogni costo che prevale a tutti i livelli della istituzione. La giungla dello sport d'altronde in questo caso non fa altro se non rispecchiare il suo alter ego: la giungla della globalizzazione liberista.
Il secondo processo ideologico è l'espressione della dissociazione quasi schizofrenica esistente tra i discorsi ufficiali - che a loro modo confortano i produttori della buona coscienza sportiva (7) - e la triste realtà dell'«ambiente»: aumento di numero e di gravità degli episodi di violenza sui campi da gioco e al di fuori degli stadi, scandali a ripetizione per corruzione di stampo mafioso o semi-mafioso, monetarizzazione generalizzata dei «valori» dello sport, frodi e inganni di ogni sorta, e soprattutto doping di massa a tutti i livelli.
Secondo la vecchia logica sempre valida della scissione schizoide, si assiste allora ad una duplice dissociazione: in primo luogo l'istituzione sportiva è ritenuta indipendente rispetto alla società capitalista globale, in grado di portare avanti una sua logica autonoma. In una società incancrenita dalla caccia al profitto, lo sport sarebbe quindi capace di continuare ad essere un'isola «pura», protetta dai propri «valori». In seconda battuta, si suppone che l'istituzione sportiva si divida secondo la logica binaria dello «sport buono» contrapposto ai suoi usi perversi, le sue «deviazioni», le sue «deformazioni».
A tale riguardo, il doping non sarebbe altro se non un epifenomeno sfortunato che «svia» certamente l'etica dello sport, ma si tratterebbe pur sempre di una pratica limitata a pochi disonesti in poche specialità sportive.
Ebbene, quel che è avvenuto negli ultimi quindici anni ha dimostrato con ogni evidenza che
il doping, più che una trasgressione episodica, è il rivelatore teratologico della vera natura dello sport: una corsa irreversibile alle manipolazioni biochimiche, una «antropomassimologia» come dicevano ancora di recente i teorici sovietici, un progetto totalitario che mira a sottomettere l'essere umano alla produzione di un cybenantropo o di un essere bionico di nuovo genere. Inchieste, processi, confessioni, rivelazioni, alla fine hanno sollevato il velo sul volto reale dello sport agonistico.
Non si uccidono così anche i cavalli?
La valanga di casi di doping nel ciclismo e nell'atletica, ma anche nel football e nel nuoto, dopo quelli, di più lunga data, del sollevamento pesi, dello sci di fondo e del canottaggio, ha avuto l'effetto di far mettere sotto controllo tutte le discipline, colpite una dopo l'altra da episodi di doping (ivi compresi il rugby, la scherma, lo judo, la lotta e il tennis). Soprattutto, ci è riproposto il problema angosciante delle condizioni mediche effettive in cui si compie attualmente la performance sportiva. Il moltiplicarsi degli allenamenti e delle gare, l'aumento del carico di lavoro legato all'aumento costante delle esigenze dello sport di eccellenza, il moltiplicarsi degli impegni economici e la pressione dei mass media hanno finito col trasformare il doping artigianale in una industria multinazionale, con i suoi fornitori, i suoi canali, i suoi intermediari (8).
Mentre la lista degli atleti positivi ai controlli si allunga, a tutti i livelli agonistici, i responsabili fanno finta di scoprire soltanto adesso le dimensioni del flagello. Dopo ogni Giro d'Italia, dopo ogni Tour de France, il ciclismo promette di «fare pulizia», in attesa di essere infangato dall'ennesimo caso. Negli altri sport, soltanto poche pecore nere del tutto isolate, a quanto pare, farebbero ricorso alle sostanze vietate, e anche loro in maniera saltuaria! Colmo della falsa coscienza, i più lucidi, o i più cinici, acconsentono a rifare il trucco al doping, dandogli una forma più edulcorata: gli integratori vitaminici, gli alimenti arricchiti, i riequilibratori ormonali, la riossigenazione, i farmaci antiasmatici e per un migliore tono muscolare, la creatina e altri stimolanti sotto sforzo servono a evocare con pudore la realtà innominabile delle iniezioni e delle anfetamine, la somministrazione dei vari anabolizzanti e corticoidi, le emotrasfusioni ad alte dosi, la routine dei trattamenti con l'Epo e adesso con gli ormoni della crescita. Nei rari casi in cui un atleta di fama si fa «pizzicare», come è avvenuto al campione cubano Sotomayor (salto in alto), ai britannici Christie e Chambers (cento metri) o all'austriaco Schönfelder (sci alpino), si finge di credere che siano soltanto «casi isolati». Ma sono soltanto la punta visibile di un immenso iceberg. Gli altri non hanno più scelta: o accettano, più o meno volontariamente, di ricorrere agli adiuvanti «della prestazione», oppure rinunciano a giocare sul palcoscenico dei grandi. Se non si trattasse di un problema di sanità pubblica, si potrebbe parlare qui in tono di scherno di «frattura sportiva» tra coloro che già adesso aderiscono alla megasetta del doping, e coloro che invece sono ancora in lista d'attesa.
Si uccidono così anche i cavalli, e poco importa che numerosi atleti scompaiano nel fiore degli anni, per «morte naturale», stando a quanto dichiarato da comunicati alambiccati (9), oppure vittime della tossicodipendenza, come Pantani, Maradona e tanti altri, per molto tempo presentati come «modelli per i giovani». E mentre l'agenzia mondiale antidoping (Ama), moltiplica le sue inani gesticolazioni, le timide leggi antidoping entrate in vigore in alcuni paesi (fra cui la Francia) mettono a nudo tutta la loro tragica impotenza, e gli organismi sportivi la loro negligenza, per non parlare di colpevole condiscendenza, di fronte a questa ecatombe programmata.
E tuttavia, si continua a celebrare quel che non è, per poter meglio tacere su quello che è. Così come «l'ideale comunista» per molto tempo ha impedito ai militanti di riconoscere la verità flagrante dei crimini del socialismo reale, accecandoli sul loro stesso accecamento, così «l'ideale sportivo» o «l'idea olimpica» - secondo la fraseologia rituale nell'universo della pubblicità sportivo mediatica - dà un contributo enorme ad occultare le condizioni reali della pratica dello sport agonistico. Così come, fino a poco tempo fa, non bisognava far disperare la fortezza operaia di Billancourt, così ora non bisogna scoraggiare le orde di fregati che rischiano di drogarsi. The show must go on...
Il terzo processo ideologico riguarda la visione sportiva del mondo inteso come discorso complessivo sulle prestazioni (10). Infatti, la fede sportiva ha come funzione essenziale quella di alimentare e salvaguardare la purezza del dogma atletico, il mito olimpico senza macchia e senza ombre. In nome di questa illusoria «idea sportiva», numerosi ideologi propongono di ripristinare i valori che si presume debba esaltare l'ambiente sportivo. Orbene, a parte il fatto che il disinteresse per l'aspetto economico è sempre stato soltanto un mito idealista, è proprio in nome di questo presunto disinteresse che lo sport agonistico si è da sempre posto al servizio di interessi economici, politici ed ideologici che, invece, sono reali e concreti.
Invocando con toni quasi mistici gli «eterni valori dello sport», questa ideologia cerca di compiersi come profezia autorealizzante, riducendo l'abisso esistente tra la realtà terrena della pratica effettiva dello sport-spettacolo capitalista e l'empireo della «idea sportiva». Atteggiandosi a imperativo categorico, tenta di allineare la pratica vigente, non esattamente scintillante, a un ideale idolatrato di cui il barone de Coubertin è il grande sacerdote. Gli articoli del credo sportivo - fair play, rispetto dell'avversario, tregua olimpica, amicizia tra i popoli, festa dei giovani - intonati in lungo e in largo si ritrovano ormai da lustri in false associazioni: associazioni tra sport e cultura, tra sport e pace, tra sport e democrazia, tra sport ed emancipazione dei popoli, dei diseredati e delle donne, tra sport e rispetto dell'ambiente, e via dicendo.
Con una serie di equazioni perverse, l'ideologia sportiva si spinge addirittura a identificare l'ideale con la sua negazione pura e semplice.
E così in Argentina la «libertà di giocare», celebrata nel 1978 da tutti gli appassionati della palla rotonda, è stata soprattutto un'operazione di propaganda per la giunta fascista di Jorge Rafael Videla, con tanto di avallo della Fifa e di tutti i sostenitori del fatto compiuto.
Un umanesimo di paccottiglia Sulla stessa falsariga, in nome dell'ideale olimpico, si sono svolte le olimpiadi della croce uncinata a Berlino nel 1936, quelle staliniste del 1980 a Mosca, quelle poliziesche di Seul nel 1988. E sempre in nome della «fratellanza olimpica», Atene consacrerà nel prossimo agosto l'adunata «pacifica» di un'interminabile coorte di «stati canaglia», di dittature delle banane e di regimi polizieschi che cercheranno di ottenere la loro parte di medaglie, di onori e di attestati di stima, sotto la protezione ravvicinata di migliaia di militari e di agenti dei servizi di sicurezza, mobilitati per prevenire gli attentati terroristi.
Atene - la culla della filosofia e della democrazia nell'antichità - passerà poi la fiaccola olimpica a Pechino, sinistro simbolo del dispotismo orientale. Le vestali dello sport a quel punto chiuderanno pudicamente gli occhi sulle infinite violazioni dei diritti umani in Cina, con l'unico scopo di tutelare il «successo» della festa olimpica prevista per il 2008.
Finiti nel dimenticatoio i campi di lavoro, le menzogne di stato, l'occupazione del Tibet, la sanguinosa repressione di piazza Tienanmen, le impiccagioni pubbliche dei condannati a morte, le vessazioni della polizia politica, le minacce contro Taiwan, la normalizzazione di Hong Kong. La festa olimpica servirà, per l'ennesima volta, da paravento a un esercizio di propaganda a favore di un regime totalitario. E la fraseologia sportiva, con il suo umanesimo di paccottiglia, servirà da giustificazione a un'operazione di marketing politico ad uso e consumo della burocrazia cinese. Come al suo solito, «la finalità senza fine» dello sport legittimerà il monopolio della violenza illegittima di una tirannia.